Un neonato, dalla nascita e di lì fino ad una certa età, non riesce a distinguere uno specchio dal muro. Ne vede certo la forma, i contrasti, in una percezione sinestetica, non distinguendo tuttavia l’oggetto dal suo contesto.
La prima volta che lessi di questo argomento, in un testo del filosofo Maurice Merleau-Ponty, mi parve sicuramente una riflessione interessante: l’inizio della vita di un essere umano vede il primato della percezione; di una percezione “olistica”, quella posizione teorica per la quale le proprietà di un sistema non possono essere spiegate esclusivamente tramite le sue singole componenti, poiché la somma funzionale delle parti è differente dalle medesime, prese singolarmente.
Il bambino è come un foglio bianco, dove i lineamenti non sono definiti; il mondo è così come gli appare: un tripudio di forme e colori.
Come arriva dunque il bambino a distinguere lo specchio dal muro?
E’ proprio a causa delle “narrazioni” che, tramite influenze di vario tipo, il bambino acquisisce i concetti di muro e di specchio e può effettuare una distinzione. Lo specchio non solo si “stacca” dal muro, ma diviene un concetto astratto, presente nel mondo delle idee (direbbe Platone). A questo punto non esiste più nemmeno “quello specchio”, ma esiste “lo specchio”. In questo modo oggetti di forme differenti, con contenuti differenti, in luoghi molteplici possono essere definiti tutti specchi, poiché le loro caratteristiche si rifanno tutti al medesimo concetto.
L’esempio vale per ogni oggetto: durante la crescita viene poco a poco sostituito al mondo sinestetico, unito, che “è come è”, quel mondo fatto di idee ripetibili: il quadro, la penna, la sedia, lo specchio, etc…
Ed ecco che l’unicità viene meno.
Così, cresendo, l’essere umano sposta la sua attenzione dalla percezione del reale all’elaborazione che la sua mente ne fa, e non si accorge più di ciò che c’è realmente, ma solo delle parole che utilizza per definire il circostante: osserva ovunque il suo pre-concetto e non quella particolare realtà.
Potremmo sintetizzare il discorso con Robert Fludd: “Integra Naturae Speculum Artisque Imago”, frase che si presta (volutamente) a traduzioni talmente varie, che per non citarle tutte non ne citerò nessuna.
Illustrazione con al centro l’Anima Mundi, «Integra Naturae Speculum Artisque Imago» da Utriusque Cosmi maioris scilicet et minoris metaphysica atque technical Historia di Robert Fludd, (Oppenheim, 1617)
Cosa c’entra questa premessa con la situazione attuale?
La narrazione attuale ci dice che ci troviamo in uno stato di emergenza, di difficoltà estrema, di negazione delle libertà, a causa di un nemico esterno.
Da qualsiasi parte la si veda, che si consideri come causa dell’emergenza quella della tesi mainstream, cioè “un virus che miete vittime e costringe all’isolamento”, o che si consideri come causa la diffusione deliberata di paura, il terrorismo mediatico, la negazione perpetua delle libertà individuali, in ogni caso il messaggio di questa narrazione è solo uno: che il mondo è brutto, malvagio, sbagliato, che qualcuno o qualcosa sta limitando le nostre libertà, che non possiamo uscire e non ne possiamo uscire.
Tutto ciò non è una verità a priori del reale. E’ vero solo nella nostra narrazione.
E’ vero, tornando a Robert Fudd, solo in quanto immagine della realtà, specchio dell’intera natura attraverso cui auto-rappresentiamo il mondo.
Ma affacciamoci alla finestra: il mondo splende, il sole splende, la quiete è imperante, l’aria è fresca; ci sono sterminati luoghi incontaminati: montagne, colline, isole, splendidi paesaggi.
Il reale viene appannato dalla narrazione, sia positiva, sia negativa. Per essere in accordo o in disaccordo con le misure prese dal governo si deve accettare e filtrare il tutto attraverso il concetto stesso di governo, di stato, di autorità, quindi legittimandolo, dando in ogni caso il proprio assenso e ponendosi dunque in uno stato di “minorità”; si possono conoscere tutte le teorie sulla diffusione del virus, quelle scientifiche mainstream, o quelle che vorrebbero disvelare la sottaciuta verità, ma per farlo si deve acconsentire ad avere in mente “l’immagine” di un virus come entità nemica. Ciò vale anche per chi ne neghi l’esistenza. Il “non” infatti presuppone l’esistenza del concetto negato, e negando dunque afferma.
Si tratta in ogni caso di un’immagine del reale sostenuta dalle nostre narrazioni, differenti ma identiche nelle leve, nella paura e nei meccanismi.
In vero tutto ciò non esiste a priori. Esiste nella mente, grazie a ciò che abbiamo appreso, alla programmazione, alla propaganda, alle immagini di morte che sono state globalmente diffuse e che abbiamo imparato a distinguere, a catalogare.
Se vi fosse, come sicuramente è, qualcuno che sta traendo profitto da questa situazione, o addirittura che l’abbia sistematicamente creata, dare la colpa attuale ad un ipotetico “loro” ci rende impotenti, ed il tutto diventa una questione “più grande di noi”, inamovibile, per la quale possiamo solo lamentarci o provare rancore, diventando promotori della situazione stessa in maniera inconsapevole.
Rimosse, eliminate, “deprogrammate” queste idee, ci accorgeremmo che il problema più grande era nella nostra testa. Riportata la responsabilità dall’esterno al nostro interno, finalmente il potere di determinare il reale ci appartiene, e si può creare una realtà differente.
Non acconsentiamo a far si che il futuro ed il presente si basino queste narrazioni. Narrazioni altrui, o, peggio, nostre!
E come fare?
Come si esce fuori dalle narrazioni? Sono talmente tanti gli esempi e le metafore che se decidessi di catalogarli tutti non basterebbe un vita a farlo. Un esempio che nella mia esperienza ho apprezzato, semplice e diretto, è quello evidenziato da Through the Looking-Glass, and What Alice Found There di Lewis Carroll, dove diviene chiaro che ogni tranello è un tranello linguistico, ogni buco un buco della ragione.
Un problema di narrazione! Il linguaggio ed i suoi buchi neri.
Propongo uno dei primi poemi di questo testo, dove ecco che il tranello della narrazione appare chiaro, lampante. Trattasi di uno tra i più noti esempi di Non Senso della letteratura anglosassone.
Il poema, che contiene numerose parole inventate, mantiene tuttavia la struttura classica delle liriche inglesi, l’utilizzo di versi, rime, quartine e del metro giambico. Inoltre la storia risulta in qualche forma comprensibile. Ma come si può comprendere qualcosa che è scritto con parole inventate?
La stessa Alice afferma: “In qualche modo sembra riempire la mia testa di idee – solo non so esattamente quali siano!”. Aggiungendo poi: “Tuttavia , qualcuno ha ucciso qualcosa: questo è chiaro”. Non è così differente da ciò che facciamo ogni giorno, raccontando le nostre narrazioni, dove pur pensando di esprimere qualcosa di sensato, di definito “si usa non si sa che, per fare non si sa che”.
Non è un po’ quello che fanno i media, e che molti di noi fanno quotidianamente? Quel chiacchiericcio insensato che riempie la testa di idee, senza sapere esattamente di che idee si trattino.
Ecco il passo.
Jabberwocky
‘Twas brillig, and the slithy toves
Did gyre and gimble in the wabe;
All mimsy were the borogoves,
And the mome raths outgrabe.
Beware the Jabberwock, my son!
The jaws that bite, the claws that catch!
Beware the Jubjub bird, and shun
The frumious Bandersnatch!
He took his vorpal sword in hand:
Long time the manxome foe he sought
So rested he by the Tumtum tree,
And stood awhile in thought.
And, as in uffish thought he sstood,
The Jabberwock, with eyes of flame,
Came whiffling through the tulgey wood,
And burbled as it came!
One, two! One, two! And through and through
The vorpal blade went snicker-snack!
He left it dead, and with its head
He went galumphing back.
And hast thou slain the Jabberwock?
Come to my arms, my beamish boy!
O frabjous day! Callooh! Callay!
He chortled in his joy.
‘Twas brillig, and the slithy toves
Did gyre and gimble in the wabe;
All mimsy were the borogoves,
And the mome raths outgrabe.
Il Giabervocco
S’era a cocce e i ligli tarri
girtrellavan nel pischetto,
tutti losci i cencinarri
suffuggiavan longe stetto.
Figlio attento al Giabervocco:
ha gli artigli ed ha le zanne,
ed attento, attento al Tocco,
e disprezza il frumio Stranne!
Egli prese in man la spada,
da gran tempo lo cercava,
e sull’albero di nada
in pensiero riposava.
Mentre stava sì in pensiero
ecco il Giabervocco appare
per il bosco artugio e fiero
tutte alunche fiamme pare.
Uno e due! Ecco che fa
l’itra spada zacche, zacche.
L’erpa testa ei lascia, e va
galonfando pel pirracche.
“Hai ucciso il Giabervocco!
Vieni, figlio, che t’abbracci,
vieni, figlio, al bardelocco
dei dì lieti di limacci!”
S’era a cocce e i ligli tarri
girtrellavan nel pischetto,
tutti losci i cencinarri
suffuggiavan longe stetto.
Jabberwocky: illustrazione pubblicata in Carroll, Lewis. 1871. Through the Looking-Glass, and What Alice Found There.
E’ chiaro qui come già la traduzione non c’entri più niente con l’originale: molte delle parole, come afferma lo stesso Lewis Carroll, sono la ricomposizione e la sintesi fonetica di altre parole che, cambiando il suono, assumono nuovi significati.
E’ un vero rompicapo per i traduttori, che finiscono inevitabilmente per cadere nel riduzionismo: sono talmente tanti i significati che è possibile rintracciare nel testo originale che la traduzione diviene una narrazione dell’autore, filtrata dai concetti e dai pensieri di quest’ultimo, che limita il campo del possibile, lo riduce a ciò che lui ci ha visto, che ha colto, categorizzato, distaccando metaforicamente “lo specchio dal muro”.
E come fa Alice a trascendere lo specchio delle narrazioni?
Su una poltrona del suo salotto, si chiede cosa mai potrà esserci dall’altra parte dello specchio. Interrogandosi, fa nascere in sé la curiosità, una curiosità magnetica che diventa la chiave.
«Ora, se stai attento, Frufrù, e non parli tanto, ti dirò tutta la mia idea intorno alla Casa dello Specchio.
Prima di tutto, v’è la stanza che si vede attraverso lo Specchio: è precisa come il salotto dove stiamo; però tutte le cose son messe alla rovescia. Salendo su una sedia la vedo tutta… tutta tranne la parte dietro il caminetto. Quanto mi piacerebbe veder quella parte! Chi sa se nell’inverno c’è il fuoco: se il nostro focolare non fa fumo, non s’indovina mai; ma se c’è fumo di qua, c’è fumo anche di là. Ma chi sa, può essere una finzione, per dare a credere che ci sia il fuoco anche di là. I libri, poi, somigliano ai nostri libri; ma le parole sono stampate a rovescio. Questo lo so; perché ho tenuto un libro contro lo specchio, e nell’altra stanza ne hanno pigliato un altro. Oh, Frufrù, che bellezza se potessimo entrare nella Casa dello Specchio! Sono certa che ci sono tante belle cose. Fingiamo di poterci entrare, Frufrù, fingiamo che lo specchio sia morbido come un velo, e che si possa attraversare. To’, adesso sta diventando come una specie di nebbia… Entrarci è la cosa più facile del mondo».Alice stava sulla mensola del caminetto mentre parlava così al micio, sebbene non sapesse spiegarsi come fosse arrivata lassù. E certo il cristallo cominciava a svanire, come una nebbia lucente.
L’istante dopo Alice attraversava lo specchio e saltava agilmente nella stanza di dietro. La prima cosa che fece fu di guardare se ci fosse il fuoco nel caminetto, e fu tanto contenta di vedere che ce n’era uno vero, pieno di fiamme vive, come quello che aveva lasciato nel salotto.
John Tenniel, illustrazione ufficiale Through the Looking-Glass, and What Alice Found There.
Ed ecco che lascia svanire i concetti. In un primo momento tutte le certezze divengono come nebbia. In quella nebbia, sorge la consapevolezza che ogni narrazione non è altro che una narrazione, senza credere ciecamente in una tesi, e sostenerla per fare si che predomini, ma lasciando affiorare il dubbio, la curiosità, restando e non sfuggendo al disagio di non sapere, in quel mondo rovesciato si attraversa lo specchio! Chi sa cosa c’è “dietro il caminetto”?
Non voglio soffermarmi qui sulle varie peripezie che da quel punto in avanti le si presentano, perché necessiterebbero una narrazione a parte. Alice si sveglia, dopo il lungo sogno, assopita sulla sua sedia, da dove in realtà non si era mai mossa. Era quindi solo un sogno?
Ma qual’è la conclusione a cui Alice giunge? Nessuna, altrimenti si negherebbe quanto affermato fino ad ora. Il tutto finisce con una domanda.
Chi l’ha sognato?
“Ma ora, Kitty, Pensiamo un po’a chi è stato a fare il sogno. E’ una questione seria, carina, e non dovresti continuare a leccarti la zampa in quel modo… come se Dinah non iti avesse già lavata stamattina! Vedi, Kitty, bisogna che sia stata o io o il Re Rosso. E’ vero che lui faceva parte del mio sogno… ma anche io del suo! E’ stato il Re Rosso, Kitty? Tu eri sua moglie, carina, e lo dovresti sapere… Oh, Kitty, aiutami a trovare la soluzione! Quella zampetta può aspettare”. Ma quell’indisponente gattina, come se nulla fosse, attaccò l’alta zampa, fingendo di non aver sentito la domanda.
E voi, che credete che fosse stato?“
"In un paese dove la Meraviglia è vanto,
Dove sognando passano i giorni ma non l’incanto
Dove sognando muoion l’estati e il loro manto.
Eternamente allora sulla corrente scivolate via…
La vampa dorata che su voi indugia è pur mia …
La vita, se non è sogno, sai che sia?"
Dunque una domanda.
Chi credete che sia a “sognare” questa distopica realtà?
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